Cloud Atlas è un film di fantascienza tratto dal romanzo L’atlante delle nuvole di David Mitchell. Scritto e diretto dai fratelli Lana e Andy Wachowski e Tom Tykwer; interpretato da Halle Berry, Hugh Grant, Tom Hanks e Susan Sarandon.
Ammetto di non essere un amante del genere fantascientifico, se non in rarissimi casi.
Mi sono avvicinato a Cloud Atlas incuriosito dalla trama che veniva annunciata complessa e articolata e dalla mega-produzione tedesca (si parla del più costoso film indipendente della storia); i registi, gli stessi di Matrix, sarebbero dovuti essere una garanzia.
Ok, ammetto anche di non aver mai amato nemmeno Matrix, ma certo non gli posso negare originalità e pionierismo in alcuni aspetti di quel genere cinematografico.
Questa originalità manca in maniera totale in Cloud Atlas: una lunga, lunghissima accozzaglia di luoghi comuni, di scene viste e riviste, per un’estenuante maratona di tre ore che dopo i primi 120 minuti (ad essere gentili) diventano davvero indigeste.
Quello che c’è da riconoscere ai registi è la conoscenza della cinematografia passata e dei generi cinematografici che, nell’ingarbugliato incrocio dei sei episodi, compaiono tutti, e tutti ben distinti.
Si riconosce il film in costume, d’azione, la commedia, il dramma, il fantascientifico e addirittura il post-apocalittico, tutti ben delineati, con i vari stereotipi segnalati ed evidenziati: dalla tratta dei neri alla commedia sulla terza età, dal banalissimo, scontatissimo, praticamente irritante thriller spionistico all’amore tragico omosessuale (ma mai una volta che due omosessuali finiscano bene, eh?), fino alla imbarazzante autocitazione da Matrix e ai luoghi comuni post-apocalittici (con un doppiaggio al limite del ridicolo). Il film prende presto una piega fastidiosa che fa dubitare pesantemente della buonafede dei registi.
Se questo non bastasse, va a pesare l’arroganza di voler inserire messaggi dotti e filosofici, con riferimenti cinematografici, storici, religiosi in un contesto che non può e non sa fruirne.
Così assistiamo esterrefatti, infastiditi, e forse persino arrabbiati all’abuso della tematica dell’olocausto rivista in chiave fantascientifico/splatter (a proposito: troppo sangue ridicolizza, non aumenta il pathos), a citazioni religiose fino a rivedere nel personaggio di Sonmi~451 (che riporta nel numero l’ulteriore riferimento a Fahrenheit 451, romanzo di fantascienza celebrato al cinema da F. Truffaut) una sorta di Messia, di Cristo portato al martirio, o a rivisitazioni varie di figure cinematografiche usate e riusate.
C’è da dire che i fratelli Wachowski provano, nei pensieri riportati dei vari personaggi, anche a trasmettere quella sorta di cinema filosofico introspettivo tipico di Terrence Malick, ma senza minimamente riuscirci e ribadendo di continuo lo stesso sterile messaggio che, con molto meno (soldi, loro, e pazienza, noi), sarebbe comunque arrivato.
Sugli attori c’è da osservare come la sensazione sia quella del solito uso di nomi famosi per fare da richiamo, ma nulla – e ripeto nulla – posso dire sia memorabile nelle loro interpretazioni.
In merito a questo messaggio, all’esistenza umana come risultato delle nostre scelte e della storia prima e dopo di noi, vi rimanderei a recuperare Almanya – La mia famiglia va in Germania, piccolo film tedesco (passato in sordina nelle nostre sale lo scorso anno) che trasmette meglio e più intensamente lo stesso significato.
Il mio consiglio? Evitatelo! Meglio due piccoli ma intensi film di un’ora e mezzo che sei scadenti per tre lunghissime ore.