Quelli di voi che hanno Sky magari hanno familiarizzato con il titolo giusto lo scorso primo aprile, giorno in cui è stata trasmessa la prima puntata della versione italiana di In treatment, serie televisiva statunitense ideata da Rodrigo Garcia e trasmessa originariamente dall’HBO. Altri, invece, avranno avuto modo di vedere le tre stagioni di In treatment, andato in onda negli USA tra il 2008 e il 2010, e già sapranno che si basa su BeTipul, serie televisiva israeliana.
In treatment, ovvero dallo psicologo cinque sedute a settimana creano la serie tv americana
In treatment racconta le vicende di Paul Weston (Gabriel Byrne), psicologo di mezza età di Baltimora, alle prese con le sedute settimanali dei suoi pazienti. E una delle peculiarità della serie è proprio questa: ogni stagione, infatti, pone il focus su una finestra temporale (nove settimane nella prima, sette nelle altre due), all’interno della quale si snoda il racconto dei pazienti. Ciascuno di loro viene ricevuto stabilmente in uno dei giorni lavorativi della settimana, ognuno dei quali corrisponde a una puntata.
Ci troviamo, così, di fronte a una serie televisiva in cui la chiave narrativa è lasciata in mano alla parola più che all’azione. Quasi tutte le puntate, infatti, risultano circoscritte all’interno dell’ufficio di Paul. Le scene in esterna sono estremamente rare, così come quelle girate in altri ambienti interni. E lo spettatore viene a conoscenza della quasi totalità degli avvenimenti non già grazie a ciò che vede bensì attraverso ciò che sente dalla bocca dei pazienti.
Questo potrebbe apparire limitante ma costituisce una sfida perché costringe lo spettatore a mettersi nei panni dello psicologo, a far la tara sul racconto che il paziente fa degli eventi che lo riguardano, ponendosi alla costante ricerca di una luce che li oggettivizzi, spogliandoli dell’inevitabile filtro dovuto all’esposizione di chi li ha vissuti in prima persona. Ogni puntata costituisce, quindi, una “caccia all’assassino”, in quanto lo spettatore viene chiamato a interpretare i dettagli della seduta e, in attesa di sapere come si sono evolute da una settimana all’altra le questioni dei vari pazienti, può divertirsi a indovinare le motivazioni che li spingono a fare una scelta piuttosto che un’altra.
Ora, si potrebbe pensare che il risultato che ne viene fuori sia claustrofobico e statico o noioso. Mai pregiudizio sarebbe più sbagliato. Il fatto che gli effetti registici siano ridotti all’osso, che la colonna sonora sia pressoché assente, che alla fine dei conti abbia uno stile molto teatrale, anzi valorizza l’alta caratura degli attori. Del cast, infatti, tra gli altri fanno parte Dianne Wiest, Debra Winger, Mia Wasikowska, solo per citare i più celebri. Ma anche gli altri attori, non troppo popolari specialmente qui in Italia, non sono affatto da meno e riescono a rendere i venti minuti della puntata estremamente interessanti e godibili.
Del resto non è un caso che all’estero In treatment abbia ricevuto svariate nomination per diversi attori non protagonisti (tra cui Dianne Wiest, Melissa George, John Mahoney) e abbia messo in bacheca un Golden Globe per il Best Lead Actor in a Drama Series per Gabriel Byrne, un AFI Award come TV Program of the Year, un Emmy Award per l’eccezionale interpretazione di Glynn Turman nella parte del padre di uno dei pazienti e un Writers Guild of America come New series per gli sceneggiatori.
Dunque, se siete amanti dell’azione, forse In treatment non è proprio il genere di serie che fa per voi. Se però siete disposti a investirci venti minuti della vostra vita una prima volta, magari vi ritroverete a dedicargli venti minuti ogni giorno.