Il 4 maggio scorso si è celebrato l’ottantacinquesimo anniversario della nascita di Audrey Hepburn. Per l’occasione, Google le ha dedicato un Doodle che cerca di riassumere con un’immagine quelle che sono state le principali caratteristiche per cui viene ricordata: essere stata una delle attrici più amate e apprezzate degli anni ’50 e ’60 e la sua seconda carriera, quella da ambasciatrice dell’UNICEF1, per la quale si è spesa con fervore negli ultimi anni di vita.
Nel mio piccolo volevo omaggiarla anch’io in qualche modo e mi son detta “quale modo migliore se non quello di farla raccontare dai suoi figli?”. Così, un po’ sperandoci e un po’ dicendomi che era un’idea folle, ho contattato Sean Hepburn Ferrer e Luca Dotti proponendo loro di fare un’intervista doppia per Citizen Post. E loro sono stati così carini, gentili e disponibili da fare questa chiacchierata con me. Così, ho intervistato telefonicamente il primo, mentre il secondo mi ha risposto separatamente tramite e-mail.
Nelle interviste a Sean e Luca che avevo letto o visto, tra le varie cose, mi aveva colpito il fatto che entrambi avessero dichiarato di aver preso pienamente coscienza solo dopo che lei se n’era andata di quanto fossero grandi e ben delineate le orme che Audrey Hepburn aveva lasciato nella società attraverso la sua carriera di attrice e di umanitaria. Così ho immaginato che potessero aver compiuto un percorso di (ri)scoperta o conoscenza della madre anche dopo che lei non c’era più.
Trovo che sia una scelta coraggiosa e per niente facile accettare che il ricordo venga esposto continuamente all’incertezza della rivelazione anziché restare protetto in una “teca di vetro”. Ma credo anche che sia sempre un’opportunità poter comprendere meglio i propri cari, cosa che a maggior ragione accade di rado quando questi “girano l’angolo”. Per questo motivo ho cercato di porre domande che in un certo senso permettessero al lettore – seppure in minima parte, è chiaro – di partecipare a questo percorso.
Questo post riporta solo un piccolo estratto dell’intervista a Sean Hepburn Ferrer e Luca Dotti, che può essere scaricata liberamente in versione integrale in formato pdf.
Legenda
SF: Sean Hepburn Ferrer
LD: Luca Dotti
Domanda: Solitamente quando una persona cara ci lascia, ciò che questa è stata ai nostri occhi finisce in un certo senso per cristallizzarsi, poiché quel che ci è dato fare è solo trattenere il più possibile il ricordo che ne abbiamo. Si può dire che ne stampiamo nella nostra mente una fotografia il più dettagliata possibile.
Dalla scomparsa di sua madre, lei si è impegnato a renderne al pubblico un’immagine a tutto tondo, spesso parlando di com’era nella normale routine quotidiana.
Tutti questi anni di interviste, chiacchierate con persone che l’hanno conosciuta hanno fatto sì che lei riuscisse ad aggiungere dei dettagli a quella foto, che lei stesso scoprisse o comprendesse qualcosa in più della persona Audrey, al di là del ruolo di madre? O in ogni caso resta un lavoro che le è tornato utile per far sì che quella foto quantomeno non perdesse il suo colore?
SF: Direi che oggi il ricordo della mamma rimane un caleidoscopio, nel senso che la sua immagine è composta da vari pezzi.
Innanzitutto, la parte della star hollywoodiana, dell’attrice. Secondariamente, lei come icona dell’eleganza, della moda. Invero, più dell’eleganza che della moda, perché aveva trovato un look che funzionasse per lei, che la rappresentasse e ha seguito tutta la vita lo stile che si era creata. Era solita dire che si vestiva più come un gentleman che come una donna normale.
Infine, l’ultimo capitolo della sua vita, ovvero il forte impegno per la causa umanitaria.
Ecco, direi che questi tre aspetti costituiscono una sorta di pilastri della sua legacy, dell’eredità che è rimasta.
Un fatto da notare è che attualmente più del 50% della nostra base di fan è costituita non più dalla generazione mia o da quella dei nostri genitori ma piuttosto da quella dei ragazzi, quindi direi una fascia che va dai 15 ai 25 anni. Questi giovani non ne hanno una conoscenza approfondita: alcuni sanno che era la donna con l’impermeabile, il trench coat e gli occhiali da sole, altri sanno che ha fatto questo film oppure l’altro. Certi sanno che ha lavorato per l’UNICEF, altri che si chiamava Audrey ma non ne ricordano il cognome. E tutti insieme ricreano questo caleidoscopio che è la sua immagine.
Come altri genitori o parenti ti lasciano in eredità un’attività, una casa, un libro, un ricordo, una lettera, mille euro – quello che è – così lei ha lasciato in eredità una storia. Ed è a quella che oggi ci riferiamo come proprietà intellettuale2. Lei era una narratrice di storie e nel corso della sua vita ha creato tutta una serie di queste storie dentro la sua più grande, che noi continuiamo a raccontare. L’ultima di queste è il meraviglioso regalo che ha offerto al termine della sua vita, ovvero il lavoro umanitario, che noi continuiamo a tentare di seguire con i nostri passettini dentro le sue orme giganti.
Dunque, non penso che la sua sia mai una storia che possa dirsi colmata perché è un po’ come un abbeveratoio: ognuno aggiunge acqua, poi il tempo fa sì che certi dettagli vengano dimenticati – diciamo bevuti – così il contenitore deve essere nuovamente riempito. E ogni volta, ovviamente, al racconto viene aggiunta l’esperienza della vita. Quindi, probabilmente, la prospettiva che abbiamo sui nostri ricordi cambia leggermente e fa sì che ogni volta riusciamo ad approfondire un po’ questo racconto. Alla fine, questa storia è un circolo continuo, in cui qualcosa viene tolto e qualcosa subito prende il suo posto. Somiglia alle fiabe dei bambini, che, tramandandosi di generazione in generazione attraverso questa sorta di “telefono umano”, si trasformano durante il passaggio. Però poi riescono a ritrovare la propria strada perché sono costituite da un nucleo forte, che riesce a riportarle sulla via giusta.
LD: Quando nel 1993 ho perso mamma, mi sono trovato a fare i conti con due lutti ben distinti. Il primo, quello strettamente privato e personale, è legato alla perdita di un genitore. Esperienza dolorosa, sulla quale non credo sia necessario dilungarsi più di tanto e con la quale, purtroppo, prima o poi tutti facciamo i conti. In questo contesto esisteva solo e unicamente il mio lutto, privato ed egoistico. Il secondo, quello pubblico, l’ho dunque vissuto come un’insostenibile invasione di campo e per reazione l’ho inizialmente escluso. Avevo perso mia madre e ritrovarla come Audrey Hepburn su ogni copertina e in ogni edicola era qualcosa che aggiungeva solo “rumore”. La mia vita con lei, la nostra vita a casa erano lontane anni luce dall’immagine della diva senza tempo.
Poco a poco, grazie anche a tante dimostrazioni di affetto, ho cominciato a capire che il pubblico aveva voglia di conoscere il privato di mamma. Benché la maggioranza intuisse un contesto di grande normalità e riservatezza, era difficile scostarsi dai preconcetti che tutti abbiamo sulle star di Hollywood. In fondo era il mio stesso dilemma, rovesciato. Quell’iniziale sentimento di difesa mi escludeva da una più profonda conoscenza a tutto tondo della vita di mia madre. Credo di avere imparato più io da quelle interviste e chiacchierate. È stata certamente una forma terapeutica e, raccontando la sua normalità, ho ritrovato la mia.
Domanda: Nomini Audrey Hepburn e subito vengono in mente Colazione da Tiffany (tit. orig. Breakfast at Tiffany’s) e tutta l’iconografia associata non solo al film ma anche alla figura di sua madre, che con esso viene fortemente identificata.
Ha mai avuto la sensazione che nel corso degli anni il personaggio di Holly Golightly abbia preso il sopravvento su Audrey Hepburn sfumando a poco a poco la distinzione tra l’attrice e il personaggio da lei interpretato?
SF: No, perché è il suo film sacro, se così si può definire. Riunisce nel momento giusto e nel posto giusto un po’ tutto quello che lei è stata. È l’inizio della donna emancipata, che va a vivere da sola in una grande città, che se la cava. E ancora oggi quel personaggio è un’icona di tutto ciò.
Ed è stata mia madre a portare a questa storia – che era molto più pesante nella versione originale del libro – una certa freschezza. È riuscita più volte, come in questa occasione, a far prendere il volo a dei soggetti, che inizialmente erano difficili e scuri.
Il libro da cui è tratto il film narra le vicende di una ragazzina, che diventa una call girl, ovvero una ragazza definibile più come accompagnatrice che prostituta vera e propria: ad esempio, un signore molto ricco che veniva da fuori città aveva bisogno di una bella ragazza che lo accompagnasse a un business meeting, chiamava questa ragazza e la portava alla cena. Poi, durante la cena, le dava la “mancia” fingendo che fosse denaro per la signora della toilette; in realtà era un regalo per la sua compagnia. Certo, poteva accadere che dopo la cosa sfociasse in altro ma all’epoca era più una specie di hostess, la “geisha americana”, diciamo.
Dunque, c’è molto di lei nel film, ma c’è poco del film in lei, nel senso che lei ha un po’ assorbito questa storia facendone scomparire le parti più pesanti e più scure, creando un nuovo copyright, per così dire, con la sua interpretazione di Holly Golightly. Interpretazione che poi è rimasta nella storia del cinema anche per la questione dello stile, del far molto con poco – che in fondo era una delle filosofie che seguiva, anche nel modo di vestire: «less is more». Quindi il film è anche un po’ la celebrazione di quello.
Poi c’è il sogno di Tiffany, del gioiello, che è il modo di ottenere l’immortalità: vestirsi di un diamante, che è destinato a durare per sempre, fa sì che la nostra bellezza caduca venga messa in risalto da qualcosa di immortale.
All’interno di questo film ritroviamo, quindi, temi molto importanti che tutt’oggi hanno valore e ritengo che la sua interpretazione abbia permesso a questa storia di mantenersi fresca, nonostante il passare del tempo.
LD: Qualche anno fa, in occasione della realizzazione di una mostra a Roma in collaborazione con UNICEF Italia, è stata ben più di una sensazione, ma una precisa realtà. Era il 2011 e ricorreva il cinquantesimo anniversario del film Colazione da Tiffany. Mi fu chiesto di organizzare un omaggio incentrato su quel film. «Ma come» – mi dissi – «proprio a Roma? La città che ha visto sbocciare la sua carriera e che poi è diventata la sua casa vuole celebrare un personaggio e un film per definizione così distanti?». Pochi ricordavano il suo vissuto romano e proprio attraverso il personaggio di Holly Golightly l’avevano ormai idealizzata come star del cinema Made in America.
Audrey a Roma3, la mostra e il libro, è stata un’esperienza realizzata grazie ai bellissimi archivi dei reporter italiani dell’epoca; un modo di chiudere il varco tra pubblico e privato; l’occasione per ricostruire una storia e un album di famiglia.
Holly Golightly non ha preso (ancora) il sopravvento, ma come tutte le forme iconiche, è riduttiva. Notare, però, che il pubblico aveva capito, che il messaggio più intimo era passato è stata una grandissima prova d’affetto.
1 «I auditioned for this job for forty-five years and I finally got it. I always felt very powerless when I would see the terrible pictures on TV. But I was offered a wonderful opportunity to do something [and it] is a marvelous therapy to the anguish I feel.»
«Ho fatto provini per questo lavoro per quarantacinque anni e alla fine l’ho ottenuto. Mi sono sempre sentita estremamente impotente nel vedere quelle terribili immagini alla TV. Ma mi è stata offerta la splendida opportunità di poter fare qualcosa e questa è una meravigliosa terapia per tutta l’angoscia che sento.»
2 Il nome Audrey Hepburn è oggi un marchio registrato di proprietà di Sean Hepburn Ferrer e Luca Dotti.
3 Ludovica Damiani, Luca Dotti, Sciascia Gambaccini, Audrey a Roma, Mondadori Electa, 2011