Il diritto italiano e le leggi sull'immigrazione

Nell’età contemporanea, l’Italia è stata esclusivamente un Paese d’emigrazione; si stima che tra il 1876 e il 1976 partirono oltre ventiquattro milioni di persone (con una punta massima, nel 1913, di 870 000 partenze), al punto che oggi gli storici hanno coniato il termine di diaspora italiana per definire un simile esodo di massa.

Per tutto questo periodo, il fenomeno dell’immigrazione era stato invece pressoché inesistente e imputabile solo a circostanze eccezionali, conseguenze di conflitti o grosse modifiche dell’assetto internazionale. L’Italia rimase quindi un Paese dal saldo migratorio negativo; tale situazione si modificò solo a partire dagli anni Sessanta, a seguito del cosiddetto boom economico.

La legge 943

Il 30 dicembre 1986 fu varata la prima legge in materia d’immigrazione, la legge n. 943, recante Disposizioni in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine. Questo provvedimento affrontò il tema dell’accoglienza in Italia del lavoratore straniero. La legge prevedeva che fossero istituite speciali liste per il collocamento della manodopera immigrata. In esse dovevano essere iscritti prioritariamente gli stranieri che già si trovavano sul territorio nazionale; solo dopo dovevano trovarvi posto coloro che, pur risiedendo ancora all’estero, aspiravano a migrare nel nostro Stato per ragioni di lavoro. Il datore di lavoro che voleva attingere a queste liste speciali avanzava una richiesta di autorizzazione, che era accolta una volta accertata l’indisponibilità di manodopera italiana o comunitaria.

Questa legge si mantenne su una condotta ancora decisamente ospitale. Con gli art. 2 e 3, istituì una consulta istituzionale per risolvere i problemi di adattamento dei lavoratori immigrati e un servizio volto a tutelarli e a organizzare azioni per la loro informazione e per il loro inserimento nella nuova realtà sociale.

Le uniche disposizioni severe della legge n. 943 furono quelle rivolte contro l’immigrazione clandestina, che cominciò a essere pubblicamente condannata (si veda l’art. 12 del testo di legge).

La legge Martelli

La legge Martelli tentò prioritariamente di regolamentare il flusso d’immigrati che periodicamente approdava in Italia. In essa, fu sancito l’obbligo da parte del governo di emanare ogni anno un decreto che stabilisse il numero massimo di stranieri a cui concedere il permesso di entrare nel nostro territorio. Nel formulare tali quote d’ingresso, il governo era obbligato a prendere in considerazione le effettive esigenze dell’economia italiana e le reali capacità di accoglienza della nostra società (art. 2).

Inoltre, la legge Martelli conferì ordine e chiarezza in merito alla qualifica di rifugiato (art. 1). Tale status è tuttora attribuito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati o da apposite commissioni territoriali, interne ai diversi Stati ospitanti e incaricate di vagliare i singoli casi. I soggetti che beneficiano del diritto di asilo sfuggono alla tradizionale distinzione tra immigrato regolare e clandestino e sono tutelati sotto ogni aspetto dal governo ospitante. I commi 7 e 9 dell’art. 1 sancirono, infatti, la creazione di un fondo di circa 70 000 milioni di lire annui che lo Stato italiano avrebbe stanziato per garantire un contributo di prima assistenza ai suoi rifugiati, per un periodo però non superiore ai quarantacinque giorni.

Il decreto Dini

Il decreto Dini venne emesso il 18 novembre 1995. Essendo stato concepito come un provvedimento d’emergenza, il decreto mise in evidenza una certa approssimazione nell’affrontare le tematiche scottanti del fenomeno-immigrazione. In primo luogo, fu varata una modifica della normativa riguardante gli ingressi nel nostro Paese. Si stabilì il divieto di entrare in Italia, ad esempio, per chi era stato condannato per uno dei reati per i quali il nostro Stato prevedeva l’espulsione.

Un importante nucleo tematico del decreto Dini concerne le regolarizzazioni (art. 12). Agli stranieri che decidevano di disciplinare il proprio status giuridico e ai datori di lavoro che s’impegnavano ad assumerli in piena regola erano, infatti, condonate le sanzioni pregresse connesse con il precedente stato d’illegalità. Comunque, l’aspetto più significativo di tale provvedimento giuridico riguardava le espulsioni. Sotto l’insistente pressione di Alleanza Nazionale e Lega Nord furono potenziate le misure repressive volte a bandire dal territorio italiano molte frange d’immigrati irregolari.

Infine, l’ultimo elemento di una certa importanza del decreto Dini era l’art. 7-sexies comma 5, nel quale si coniò la nozione di obbligo di dimora. In pratica, si prescriveva all’espulso l’obbligo di alloggiare temporaneamente presso una struttura statale, in attesa che fossero accertate la sua identità e provenienza e procurati i documenti necessari per il rimpatrio. La permanenza in questi centri provvisori non doveva superare i trenta giorni e doveva essere accompagnata da periodiche visite dello straniero presso gli uffici di polizia incaricati di dirimere le questioni. Facevano, quindi, la loro prima timida comparsa degli embrionali centri di detenzione riservati agli immigrati irregolari, che avrebbero recitato un ruolo da protagonisti nelle successive vicende giuridiche riguardanti l’immigrazione, a cominciare dalla successiva legge in merito: la Turco – Napolitano.

La legge Turco – Napolitano

La legge Turco – Napolitano fu promulgata il 6 marzo 1998. Essa tentò di proporsi come una legislazione di superamento della fase emergenziale. Fu il frutto, cioè, di una matura riflessione giuridica sul tema dell’immigrazione, consolidata da anni di assimilazione teorica di un fenomeno dapprima quasi sconosciuto. La legge n. 40/98 rappresentò il bilancio sulla condizione dello straniero nel diritto italiano. Fu, dunque, molto prolissa (si compose di quarantotto lunghi articoli) e rimase il testo di riferimento esclusivo per quattro anni, fino al 2002. A tal proposito, come previsto dall’art. 47, sulla sua scia fu emanato il decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, chiamato Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero e vigente ancora oggi, seppur con qualche modifica introdotta dalle legislazioni successive.

La legge Turco – Napolitano era caratterizzata dall’introduzione sistematica della distinzione: soprattutto quella fra immigrati regolari e immigrati clandestini. In particolare, essa tentò di scoraggiare con provvedimenti molto repressivi coloro che entravano irregolarmente nel nostro Paese e i datori di lavoro che li assumevano in nero. Il testo di legge, d’altro canto, garantì agli immigrati regolari gli stessi diritti civili dei cittadini italiani (art. 2).

Tuttavia, il provvedimento più rilevante della legge Turco – Napolitano è stato l’istituzione di Centri di Permanenza Temporanea (CPT), tuttora esistenti anche se con una denominazione diversa. I CPT sono strutture temporanee di detenzione degli immigrati irregolari prima della loro definitiva espulsione, necessarie per permettere alle autorità italiane di accertare l’identità e il paese di provenienza dello straniero, per il suo rimpatrio. Scontri frequenti all’interno dei centri fra immigrati di diverse nazionalità, assenza d’igiene, degrado, scarsa assistenza medica e malnutrizione hanno posto però la questione se i CPT possano esistere all’interno di uno Stato che si professa democratico.

La legge Bossi – Fini

La successiva disposizione normativa varata in tema di immigrazione fu la cosiddetta legge Bossi – Fini, ovvero la legge n. 189 del 30 luglio 2002, approvata dal Parlamento italiano nel corso della XIV legislatura, come modifica del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, ovvero il decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998.

La linea dura del provvedimento Bossi – Fini si manifesta soprattutto nel trattamento dell’immigrazione clandestina, sentita come una vera e propria minaccia. Tuttavia, in questo punto non vi sono grossi cambiamenti rispetto a quanto previsto dal Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero del 25 luglio 1998. Casomai, l’elemento di originalità della Bossi – Fini è il tentativo di bloccare l’evento della clandestinità a priori: s’impedisce, cioè, alle imbarcazioni (chiamate nel testo di legge, significativamente, carrette) che trasportano masse di disperati verso l’Italia, di attraccare, attraverso controlli in mare da parte delle navi di polizia e della Marina militare. È stato legiferato, quindi, un forte potenziamento dei controlli alla frontiera e alle coste italiane che porta con sé, ovviamente, anche repressione e brutalità di modi. La precedenza alla legalità spesso conduce all’oblio dei più naturali valori umani, tra cui la solidarietà e l’empatia verso esseri che fuggono da condizioni tragiche. Le navi, se respinte in mare, corrono nuovamente incontro a un destino fatto di pericoli e incertezze Proprio il trattamento estremamente rigido della clandestinità ha suscitato più di una perplessità negli ambienti politici e giudiziari.

La legge Maroni

Sulla scia emotiva della cronaca nera, è approvata il 15 luglio 2009 la legge n. 94, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, che vede come suo primo firmatario il ministro degli Interni, Maroni (Lega Nord). Tale provvedimento segna un passo in avanti rispetto alla ricerca assoluta di legalità e sicurezza, che era stata perseguita già dalla legge Bossi – Fini del 2002. Infatti, per combattere una volta per tutte il disordine giudiziario provocato dall’ondata incontrollata di extracomunitari è introdotto il reato di clandestinità: ogni straniero irregolarmente presente in Italia rischia un’ammenda da 5 000 a 10 000 euro; oppure, in sostituzione, una pena detentiva da uno a cinque anni. Inoltre, l’essere clandestino costituisce, d’ora in avanti, un aggravante in presenza di altri reati e vi è compreso un forte inasprimento di pena anche per chi favorisce l’ingresso e il soggiorno illegale nel nostro Stato di profughi. La legge Maroni, cioè, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, ammette ufficialmente la clandestinità tra i reati gravi che devono essere severamente accertati, facendone uno dei mali da cui l’Italia è affetta.

I Centri di Permanenza Temporanea sono ribattezzati Centri di Identificazione e Espulsione (CIE), con alcune significative peculiarità nel loro regolamento interno, molto più severo di quello dei CPT.

Il reato di clandestinità, elemento simbolo di questa legge, mantiene gli stessi giuristi incerti sulla condotta da tenere, tanto che in questo 2014 si sta cercando di correggere alcuni aspetti infelici di tale disposizione normativa.

Solo il tempo saprà dire se l’Italia sia riuscita nel suo intento di frenare la microcriminalità e i disordini nelle città, oppure abbia imboccato decisa la strada che conduce al razzismo.

Stefano Airoldi
SEO copywriter, advertising online e social media.
Fonte: Article-Marketing.it