Negli ultimi decenni centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini hanno scelto il territorio europeo come luogo di salvezza, con l’obiettivo di sfuggire a conflitti e violazioni di diritti umani, fame e povertà. In assenza di canali sicuri e legali con cui giungere in Europa, hanno compiuto veri e propri viaggi della speranza attraverso il deserto e il mare, ammassati come bestie su barconi stipati di persone.
Ora, a distanza di molti anni dall’inizio di quella che il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, definisce “l’emergenza umanitaria di questo inizio di secolo”, un rapporto di Amnesty International pubblicato nei giorni scorsi fa luce sulle procedure di “accoglienza” adottate dalle forze di polizia italiane impiegate nei porti del Mezzogiorno. Cercheremo quindi di illustrare al meglio il contenuto di questo rapporto, analizzando il trattamento denunciato dagli stessi rifugiati e migranti a partire dallo sbarco sulle coste nostrane.
Approccio hotspot
Il grande flusso migratorio, aumentato notevolmente dal 2013, ha reso necessarie operazioni navali tese a pattugliare il Mediterraneo e a condurre operazioni di salvataggio col fine ultimo di limitare al minimo il numero di barche che raggiungono le coste europee autonomamente. Arrivati al porto, rifugiati e migranti vengono trasportati nei c.d. hotspot. Gli hotspot sono centri per l’identificazione, lo screening e la prima assistenza allestiti con il coinvolgimento delle agenzie europee. All’interno degli hotspot, lo staff medico sottopone le persone ad un primo controllo fornendo assistenza ai bisognosi, mentre le Ong distribuiscono acqua e biscotti.
Successivamente, la polizia di stato avvia un processo di registrazione di base, chiedendo a ognuno di fornire nome, data di nascita e nazionalità. Viene chiesto inoltre ai rifugiati e ai migranti di sottoporsi a una procedura formale di identificazione che comprende il rilevamento delle impronte digitali. Infine vengono avviate le procedure di “uscita” dagli hotspot. Innanzitutto vengono separati dagli altri le persone provenienti da paesi con i quali l’Italia ha accordi bilaterali di riammissione e vengono espulsi verso questi stati. In secondo luogo, le persone che non hanno manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale, e non hanno diritto di rimanere sul territorio nazionale, vengono “respinti” con un decreto del Questore che li obbliga ad allontanarsi dal territorio dello Stato entro 7 giorni. I restanti vengono trasferiti in una struttura di accoglienza secondaria.
Difficoltà dello screening
Gli scarsi tassi di rilevamento delle impronte digitali hanno portato i governi degli stati europei a criticare l’operato italiano, ricordando l’obbligo dell’Italia di sottoporre al rilevamento delle impronte tutte le persone in arrivo e di inserire i dati ottenuti nel database Eurodac, per permettere agli altri paesi di rinviarle forzatamente in Italia, secondo il Regolamento Dublino. Quest’ultimo stabilisce i criteri per la ripartizione delle responsabilità sulle domande di asilo tra gli stati membri dell’Ue, sottoponendo ad un immenso sforzo economico e materiale gli stati membri che sono ai confini esterni dell’Europa. Il Regolamento Ue conosciuto come Dublino III, infatti, permette ai paesi membri di rimandare i richiedenti asilo verso il paese Ue di primo ingresso.
La maggioranza dei rifugiati e migranti che arrivano in Italia accetta il rilevamento delle impronte digitali senza alcun problema. Tuttavia, un certo numero di persone si rifiuta di svolgere questa procedura poiché vuole spostarsi e fare richiesta di protezione internazionale in altri paesi e teme di essere rinviato in Italia. I motivi che spingono queste persone a continuare il loro viaggio sono diversi: molti vogliono ricongiungersi ai loro parenti o amici, alcuni ritengono che in altri paesi riceveranno un’assistenza migliore o avranno più opportunità di trovare lavoro.
Appare evidente, dunque, il motivo per cui l’Italia possa incontrare difficoltà nel raggiungimento dello screening completo delle persone sbarcate. Nonostante ciò, i cambiamenti di prassi dello screening promossi dal governo italiano hanno portato la Commissione Ue, a marzo 2016, a riconoscere che “i tassi di rilevamento delle impronte digitali riportati dalle autorità italiane e da Frontex hanno quasi raggiunto il 100% negli ultimi sbarchi negli hotspot”.
Le autorità italiane hanno dichiarato che l’aumento del tasso di rilevamento è dovuto a una diminuzione degli arrivi di persone di alcune nazionalità che generalmente rifiutano di dare le impronte, oltre alla capacità della polizia di “negoziare” con le persone appena arrivate e di persuaderle, separando quelle che si rifiutavano di collaborare. Secondo Amnesty International, invece, “la realtà è che tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, la polizia italiana ha introdotto strategie più aggressive per costringere le persone a fornire le impronte digitali, incluso l’uso della forza fisica e di detenzione prolungata, portando a gravi violazioni dei diritti umani”.
Uso della forza e tortura
In tal senso, Amnesty International ha ricevuto durante il 2016 un numero consistente di denunce circa un uso eccessivo della forza da parte della polizia negli hotspot o in altri centri di accoglienza, allo scopo di ottenere le impronte digitali di rifugiati e migranti.
Alcuni hanno denunciato di aver subito duri pestaggi con pugni, calci e manganelli.
Adam, 27 anni, Sudan: “Ci hanno chiesto di dare le impronte ma io ho rifiutato. Sei poliziotti in uniforme mi hanno picchiato col manganello sulle spalle, al fianco e sul mignolo della mano sinistra, che da allora non riesco a raddrizzare. Sono caduto e mi hanno preso a calci per circa dieci minuti. Avevo paura”.
In altri casi, le persone intervistate da Amnesty International hanno raccontato di aver subito pestaggi con manganelli elettrici (c.d. manganelli stordenti), armi che provocano forti dolori senza lasciare tracce fisiche durature sul corpo percosso. In due casi, persone denunciano maltrattamenti ad opera della polizia che ha inflitto loro umiliazioni sessuali e causato forti dolori genitali.
Ishaq, 16 anni, Sudan: “Dopo essermi rifiutato di fornire le impronte, ci hanno fatto spogliare. Gli agenti mi hanno preso braccia e gambe, uno per ogni arto. Una quinta persona mi ha tirato verso il basso per il pene fino a farmi sedere per farmi la foto, poi sono riusciti a forzarmi a mettere le mani sulla macchina per le impronte digitali. Per due giorni mi è uscito sangue ogni volta che facevo pipì”.
Violazioni dei diritti umani
Secondo la legislazione vigente in Italia, le forze di polizia sono autorizzate a prelevare con la forza “capelli o saliva” di persone soggette a indagine penale con modalità che tutelino il “rispetto della dignità personale del soggetto”, previa autorizzazione del pubblico ministero (art. 349.2 bis c.p.p.). Ad eccezione della suddetta disposizione, quindi, non ci sono altre azioni coercitive consentite dalla legge italiana per ottenere campioni con lo scopo di identificare una persona che non vuole collaborare. Anzi, la Costituzione italiana dispone espressamente che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà” ex art. 13, comma 4, Cost.
Amnesty International ritiene che i trattamenti appena esaminati costituiscano tortura secondo la definizione della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, che definisce tale una condotta tesa ad infliggere in maniera intenzionale “dolore o sofferenze acute a una persona al fine di intimidirla o esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, qualora tali sofferenze siano inflitte da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale”. Ricordiamo che la tortura e gli altri trattamenti crudeli, disumani e degradanti, sono vietati dal diritto internazionale consuetudinario e da diversi trattati che vincolano l’Italia, tra cui l’art.7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), la Convenzione contro la Tortura e l’art.3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Date le recenti condanne subite dal nostro Stato ad opera della Corte EDU per aver violato il divieto internazionale di tortura (vedi caso Cestaro dell’aprile 2015), e data la gravità delle condotte denunciate da rifugiati e migranti tramite Amnesty International (da provare nelle opportune sedi giudiziarie), è lecito chiedersi quanto ancora il legislatore italiano voglia attendere prima di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento.
Mauro Biancadoro