Ogni popolo nel mondo ha costruito nel tempo le sue tradizioni e le ha portate avanti, in gran parte, fino ai giorni d’oggi; anche la Sardegna ovviamente si annovera tra le file dei più attenti al rispetto della storia del proprio popolo e, sebbene non tutte le tradizioni siano ancora vive, di certo i sardi cercano di tramandarne la memoria. Tra queste tradizioni troviamo naturalmente quelle legate al culto dei morti, che è da sempre un pilastro fondamentale di ogni cultura.
Cosa accadeva fino a non troppo tempo fa nelle famiglie dell’isola, quando veniva a mancare un caro? In tutto il territorio la tradizione era abbastanza simile: si posava la salma su un letto, con i piedi rigorosamente puntati verso l’uscio della porta a simboleggiare per lui l’inizio di un nuovo cammino. Si coprivano poi tutti gli specchi, velandoli di nero affinché l’anima non vi restasse impigliata e, negli ultimi secoli, si era soliti posare un crocifisso sul petto che veniva baciato dai cari in processione. Le salme in alcuni paesi dell’entroterra venivano lavate a fondo con l’acqua o col vino o a seconda della ricchezza della famiglia d’origine, che cercava inoltre gli ornamenti più belli per la tomba, richiedendo i servizi dei migliori artigiani dell’arte funeraria al fine di onorare il defunto.
Un’ulteriore usanza era quella di deporre cibo e bevande all’interno della tomba, così che il morto non tornasse a procacciarseli tra i vivi. Le tende dovevano restare tirate e le finestre chiuse dalla morte fino al momento in cui ogni rito non aveva fine, così come il focolare doveva restare spento. Tutte queste accortezze erano parte di una credenza profondamente radicata, secondo la quale le anime dei defunti dovevano essere omaggiate a sufficienza, ricordate e verso le quali era necessario dimostrare tutto il dolore ed il cordoglio provato per la perdita, affinché le stesse, offese dalla mancanza di riguardo nei loro confronti, non tornassero tra i vivi mostrando la loro ira ed il loro rammarico.
Le figure più importanti a questo scopo sono quelle che in italiano sono conosciute come prefiche, che in Sardegna prendono il nome di “attitadoras” e che avevano il compito di piangere letteralmente il defunto, in cambio talvolta di generi alimentari come il grano ed altre volte di nulla più che un ringraziamento, al contrario delle prefiche romane o greche che invece chiedevano sempre un compenso in denaro. Il loro modo di salutare il defunto era quello di comporre delle rime improvvisate sulla sua vita e sulla sua morte, concentrandosi ovviamente sul dolore provocato dalla loro dipartita, accompagnando il tutto con urla e gemiti disperati, pianti e manifestazioni fisiche di una profonda disperazione come battersi il petto, strapparsi i capelli e gettarsi a terra, talvolta arrivando perfino a ferirsi il viso con le unghie.
Questi canti macabri, sorprendenti se si pensa che queste donne erano quasi sempre analfabete, esprimevano spesso oltre al dolore anche vere e proprie grida di vendetta quando il trapassato aveva subito una morte violenta. In verità questo è stato uno dei motivi principali per il quale nella seconda metà del ‘900, in molti hanno tentato di dissuadere le famiglie dal praticare questo genere di riti, le faide infatti certe volte diventavano vere e proprie tragedie greche.
Le attitadoras non erano mai dirette congiunte del morto, ma come una delle ultime prefiche sarde ha fatto notare, nei piccoli paesini dell’entroterra sardo ci si conosceva un po’ tutti, ed il lutto era un affare pubblico e non privato come lo è oggi, perciò un fondo di tristezza c’era sempre nel piangere le salme, di qualsiasi tipo di persona si fosse trattato. Tutti infatti avevano diritto ad una cerimonia che prevedesse questi pianti, ed era compito dell’attitadora trovare l’umanità nella vita di ognuno, così da poterla celebrare.
Sebbene le morti fossero pubbliche però, e queste donne ricercassero motivi per compiangere i morti, la sacralità della riservatezza degli affari di famiglia non doveva mai essere violata, tanto che non ci si assicurava solo del rispetto del silenzio da parte dei vivi ma anche del morto stesso, a cui la congiunta più anziana andava a chiudere la bocca affinché nessun segreto vi potesse scappare nemmeno nell’oltretomba.
Riti e tradizioni di questo tipo sono oggi, per lo più, solo storie che si tramandano così da non essere dimenticate tra le trame del tempo, eppure in Sardegna si sente ancora parlare di tanto in tanto di queste figure, ad oggi solo donne molto anziane, che ancora perpetuano nella loro missione. Se una notte doveste quindi sentire delle lugubri ma appassionanti nenie lamentose, chissà che non possa essere la voce dell’ultima attitadora.