Nel nuovo decreto emanato di recente è apparso un riferimento esplicito riguardante il tema dello smart working. Nel nuovo Dpcm viene detto infatti che “la pubblica amministrazione organizza il proprio ufficio assicurando, su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale, lo svolgimento del lavoro agile nella percentuale più elevata possibile”.
È stato inoltre rimarcato il concetto sul lavoro agile da parte dei datori di lavoro privati, in larga estensione.
Nelle aziende più blasonate, lo smart working oramai è diventata una pratica quasi definitiva. Tuttavia, nelle realtà di minore portata, persiste ancora il classico lavoro dal proprio ufficio. Questa teoria è riportata anche negli accurati dati statistici: secondo l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, il 78% delle piccole imprese non ha ancora optato per lo smart working, con soli 5 milioni e 80 mila dipendenti.
Questi studi sono basati su un campione esteso di circa 16 milioni di dipendenti presenti in tutta Italia.
Smart working: il significato della parola “raccomandato”
In ambito smart working, è ancora fortemente raccomandato optare per questa scelta per tutti i datori di lavoro. A titolo giuridico, viene fatto invito al datore di lavoro in questione di adottare maggiore prudenza. Di conseguenza, far lavorare i propri dipendenti in maniera più sicura, vale a dire tramite lo smart working.
In un ipotetico caso di Coronavirus nella propria azienda, il datore di lavoro non sarebbe esente dall’incorrere in pesanti sanzioni, essendoci la possibilità di sottoporre i propri dipendenti allo smart working.
Una recente indagine condotta da Cisl evidenzia proprio la ricorrenza del lavoro agile. In Lombardia, su 4365 lavoratori dipendenti, una minima parte ha scelto di non ricorrere al lavoro fuori dal proprio ufficio. Il trend dello smart working è indubbiamente in larga espansione, soprattutto alla luce del nuovo Dpcm.