Legge Fornero da superare per davvero, scalone post quota 100 da eliminare e flessibilità in uscita: sono questi i punti salienti della riforma delle pensioni richiesta dai lavoratori e dai loro rappresentanti sindacali. Contenimento della spesa pubblica, applicazione piena delle norme previdenziali della legge Fornero ed età pensionabile più vicina ai 67 anni, invece, sono le richieste di Bruxelles.
Il governo si trova tra questi due fuochi, tanto è vero che le misure ipotizzate in una riforma di cui si parlerà non subito, visto che si riaprirà la piattaforma tra governo e sindacati solo dopo avere affrontato altre priorità, tutto sembrano tranne che venire incontro alle esigenze dei lavoratori.
Penalizzazioni, tagli e platee di nuovi pensionati sono all’ordine del giorno. Soprattutto sulle penalizzazioni, ciò che si perderà di assegno non sarà poco, sia che la linea sia quella del taglio lineare che quella del ricalcolo contributivo. In un’analisi effettuata dalla redazione del sito Pensioniefisco.it, scopriamo la eventuale perdita di assegno da sostenere se le misure scelte saranno la quota 41 per tutti o la quota 102.
Occhio alle nuove misure, vanno analizzate bene
Conoscendo il metodo con cui vengono pubblicizzate le misure da parte dei nostri governi, è facile che si vendano misure contenute come platea piuttosto che una autentica rivoluzione votata alla flessibilità. Un metodo che non riguarda solo le pensioni. Basti pensare ai contributi a fondo perduto per le Partite Iva dove si parlava di erogazioni del 60% delle perdite di ricavi ma che a conti fatti è solo il 60% di un mese di perdite.
E fu così che si parlò di quota 100 come di superamento della legge Fornero, dimenticando di dire che solo per chi aveva 62 anni con 38 di contributi si poteva parlare di quota 100, perché senza queste soglie minime non si rientrava nelle misure nonostante quota 100 completata. Fumo negli occhi che, c’è da scommettere, verrà gettato anche in vista di una nuova riforma.
Calcolo della pensione, tra retributivo e contributivo
Non c’è sistema previdenziale basato sul calcolo contributivo che non abbia misure di pensionamento flessibile. Se le pensioni vengono erogate in base all’ammontare dei contributi versati (cd montante contributivo) è da lasciare alla facoltà del lavoratore scegliere quando uscire, perché meno si versa meno di prende di pensione.
E probabilmente penalizzazioni di assegno sono inevitabili per chi sceglierà di uscire prima dal lavoro. Una proposta dei sindacati, per esempio, è la flessibilità dai 62 anni con 20 anni di contribuzione versata. Difficile che venga accettata visto che si tratta in buona sostanza di concedere l’uscita di vecchiaia 5 anni prima dei 67 ancora oggi previsti. Ed ecco che si parla di tagli, con metodo da scegliere tra ricalcolo contributivo pieno o taglio lineare. In entrambi i casi un salasso. Senza considerare che il nostro sistema già di struttura prevede penalizzazioni se si esce prima dal lavoro. Meno contributi versati meno pensione dicevamo, ma anche coefficienti di trasformazione meno favorevoli quanto più giovani si lascia il lavoro.
Le penalizzazioni sulle pensioni sono già in vigore
Uscire dal lavoro a 62 anni invece che a 67, a meno che non si tratti di situazioni prossime alla disperazione come quelle dei disoccupati, è già di per sé una scelta penalizzante come rateo di pensione. Un soggetto in continuità di assunzione, per esempio, scegliendo di lasciare il lavoro 5 anni prima perde 5 anni di contributi. E sono diversi euro in meno di pensione. Soprattutto sul calcolo contributivo il conteggio è piuttosto semplice, seppur variabile in base a stipendio del lavoratore.
Sistema contributivo e regole di calcolo
In linea di massima si versa il 33% dello stipendio come contribuzione previdenziale. Un lavoratore con stipendio annuo di 20.000 euro verserà più o meno 6.600 euro di contributi all’anno. Ciò significa che un anno di contributi versati vale poco più di 25 euro (507 euro di pensione mensile circa) per questo lavoratore, come ne valgono circa 38 per chi ha stipendio annuo da 30.000 euro e versa 9.900 euro di contributi. Questo perché i contributi versati diventano pensione per il tramite dei coefficienti di trasformazione.
Questi coefficienti nel sistema contributivo sono legati alle aspettative di vita oltre che essere diversi in base all’età del lavoratore. Infatti, se nell’esempio abbiamo utilizzato il coefficiente generale pari a 5,002, va ricordato che per il biennio 2021-2022 a 62 anni come età di uscita si utilizza il coefficiente 4,77 (sceso dal 4,79 del biennio precedente sempre per via dell’aspettativa di vita). Ciò significa che per il lavoratore con 20.000 euro di stipendio annuo, un anno di contributi vale circa 24 euro.
Il sistema retributivo è più vantaggioso
Diverso il calcolo della pensione con il retributivo. In questo caso dipende dalla media annua degli stipendi riferiti agli ultimi 5 e agli ultimi 10 anni di carriera con calcolo di due quote. La prima riguarda in linea di massima i contributi versati entro il 31 dicembre 1992, mentre la seconda quelli versati entro il 31 dicembre 2011. La pensione vale il 2% all’anno della retribuzione pensionabile.
Pertanto, tornando al calcolo retributivo, 20 anni di contributi valgono il 40% della retribuzione pensionabile così come 40 anni valgono l’80% (che è il massimo previsto, perché anche 42 anni di anzianità contributiva si ferma all’80%). Il calcolo retributivo si applica per le anzianità contributive fino a tutto il 2011 per chi ha più di 18 anni di contributi alla data del 31 dicembre 1995, mentre a tutto il 1995 per chi ha meno di 18 anni di contributi alla data del 31 dicembre 1995.
Anche la tanto agognata quota 41 per tutti non esente da tagli
Evidentemente nel sistema retributivo un anno in più di lavoro può andare ad incidere nettamente sul calcolo della pensione, soprattutto se l’anno di lavoro ha retribuzioni elevate. Nel sistema contributivo, invece, ogni contributo si accumula come in una specie di salvadanaio.
Ma se alle già evidenti penalizzazioni che subirebbero i lavoratori che per loro scelta uscirebbero dal lavoro a 62 anni anziché a 67, cioè con 5 anni in meno di contributi e con un montante contributivo passato con coefficienti più bassi, è evidente che qualsiasi altra penalizzazione insita nelle misure peggiora la situazione.
Penalizzazione su penalizzazione, perché, per esempio, la quota 41 per tutti che sembrerebbe tra le misure al vaglio del governo, andrebbe a prevedere (come anche un recente disegno di legge leghista ha previsto), il ricalcolo contributivo della pensione. E per chi ha più di 18 anni di contributi versati al 31 dicembre 1995, che sono la stragrande maggioranza dei lavoratori che oggi hanno sui 40 anni di versamenti, il taglio da accettare sarebbe ingente arrivando a superare il 30% di pensione. Infatti questi lavoratori avrebbero diritto al calcolo retributivo per le anzianità fino al 31 dicembre 2011.
Tra tagli lineari e ricalcolo contributivo
E, come spiegato prima, una cosa è ottenere l’80% della retribuzione pensionabile come spetta ad un soggetto con almeno 40 anni di carriera alle spalle, una cosa invece ricevere la pensione calcolata sul 33% dello stipendio versato come contribuzione previdenziale.
Se il calcolo contributivo penalizza pesantemente i futuri pensionati, se davvero verrà inserito nelle nuove misure come obbligo e non come opzione, non meglio andrà se si penserà a tagli lineari come verrebbe previsto da quota 102. Questa misura parte dal presupposto di essere alternativa a quota 100 con un riduzione dello scalone di 5 anni che verrebbe portato a solo 2 anni. In pratica, se quota 100 permette l’uscita a 62 anni, la quota 102 lo consentirà dai 64. Resteranno sempre 38 gli anni di contribuzione versata.
Ma se quota 100 non prevedeva penalizzazioni, se si esclude il minor numero di anni di contribuzione versata e il meno favorevole coefficiente di trasformazione, con quota 102 si pensa a penalizzazioni anche del 3% per ogni anno di anticipo rispetto ai 67 anni. In pratica al lavoratore che sfrutta il massimo risparmio come età pensionabile, cioè a 64 anni, verrà imposto un taglio del 9%, che su una pensione da 1.000 euro al mese significa la bellezza di 90 euro in meno, da aggiungersi ai 3 anni in meno di versamenti che si sarebbero potuti ottenere fino ai 67 anni e a un coefficiente di trasformazione di qualche decimo di punto meno favorevole.